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Sicilia: quale insegnamento dalla terra delle preferenze?

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– Le prossime settimane saranno probabilmente decisive per capire se c’è lo spazio per una riforma del sistema elettorale che superi il “porcellum, ma allo stato attuale del dibattito tra le ipotesi di modifica più accreditate c’è la reintroduzione delle preferenze, abolite al tempo del “tatarellum”. Si tratta di un’ipotesi da sempre sostenuta in primo luogo dall’UDC ma che sembra raccogliere oggi un consenso ben più ampio.

Va detto che l’affare Fiorito nel Lazio ha in realtà almeno un po’ scalfito il “fascino” del ritorno alle preferenze nel sistema elettorale nazionale e l’idea che sia da lì che possa provenire una palingenesi della politica. Tuttavia la situazione resta molto fluida ed alla fine le preferenze potremmo davvero ritrovarcele, se non per genuina convinzione generale, per lo meno perché potrebbero risultare un ingrediente strumentale a comporre una qualche maggioranza tecnica sulla riforma elettorale.

Al di là di alcuni scandali puntuali che sono saliti all’onore delle cronache, vale la pena analizzare le dinamiche indotte dalle preferenze anche da un punto di vista più sistemico ed in quest’ottica merita, ad esempio, gettare uno sguardo al voto siciliano di pochi giorni fa.

La Sicilia è da sempre la terra delle preferenze e lo è stata anche in queste elezioni regionali. Se escludiamo il voto per il Movimento 5 Stelle che è fortemente catalizzato dalla leadership nazionale e che è per molti versi “di opinione”, le preferenze espresse sul totale delle schede sono state circa il 90% – in particolare sono state il 96,7% per i voti all’MPA ed il 95,5% per i voti all’UDC.

Nelle varie elezioni regionali siciliane il tasso di espressione di preferenze appare crescente con l’unico dato in controtendenza del 2008, anno in cui, però, si votava contestualmente anche per il parlamento e quindi si sono recati alle urne anche settori di elettorato meno “legati” alle dinamiche locali.

Dunque i siciliani sono “zelanti” – più “zelanti” di altri – nell’utilizzare appieno lo strumento che la legge mette loro a disposizione per selezionare gli amministratori.
Segno che rappresentano un corpo elettorale più “maturo”, più attento, più partecipe della vita civile, più in grado di esprimere giudizi consapevoli sulle capacità dei singoli politici rispetto a chi vive in altre regioni? Ci piacerebbe rispondere così, ma forse le cose stanno in modo diverso.
E’ più facile obiettivamente che l’utilizzo così esteso della preferenza rappresenti la fotografia di una regione dove le relazioni tra la classe politica ed il corpo elettorale sono più improntate che altrove al clientelismo ed alla dipendenza.

Del resto, alla luce dei risultati disastrosi di tutti i governi che si sono succeduti nell’isola, appare francamente surreale ritenere che le preferenze stiano rappresentando uno strumento efficace di controllo democratico e di selezione qualitativa della classe politica.
Anzi, come tante volte è stato spiegato su questo giornale, le preferenze sono purtroppo un dispositivo che tira fuori il peggio dalla democrazia, riducendola ad una gara per la rappresentanza di interessi particolari e concentrati.

E’ chiaro che in linea di principio, qualunque sia il sistema elettorale, i politici si contendono il consenso attraverso la spesa pubblica e l’utilizzo discrezionale del potere a favore di determinati gruppi. Tuttavia il modello basato sulle preferenze tende ad incentivare questo tipo di comportamenti, in quanto il “politico da preferenze” non ha alcun bisogno di prefigurare una “visione maggioritaria”; non ha alcun bisogno di presentare agli elettori un progetto sufficientemente credibile da poter riscuotere un largo consenso (magari non solo quello di coloro che beneficiano di determinate politiche, ma anche quello di coloro che le pagano). Al contrario, a chi cerca le preferenze basta concentrarsi sugli interessi di un particolare gruppo di elettori di cui ricerca il voto, promettendo di massimizzare il loro vantaggio – va da sé – a scapito di tutti gli altri.

Il tipo di competizione che ne deriva risulta devastante in termini di interesse complessivo, perché ogni singolo eletto tenderà a muoversi senza alcun riguardo alla tenuta complessiva dei conti, avendo come unica bussola il mantenimento della piccola constituency che lo ha votato.

La situazione siciliana è sicuramente paradigmatica di una certa visione “relazionale” della politica e per esteso dell’economia e della società e l’attuale sistema elettorale pare assecondare in maniera perfetta le dinamiche patologiche che a tale visione sono associate. Così il voto diventa in troppi casi la resa dei cittadini all’ineluttabilità di un modello di società in cui si va avanti con l’amico in posizione giusta, con la spintarella, con l’eccezione, con il favore ad hoc.

E’ uno scenario triste, di ripiegamento morale e culturale; uno scenario che preesiste certo alle tecnicalità elettorali, ma che un determinato sistema di regole contribuisce – e non poco – ad incentivare.
Insomma quel sistema elettorale non fa il bene della Sicilia e non farebbe – se riportato a livello nazionale – il bene dell’Italia.


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